Tre note sulla immaginazione “paesaggistico plastica” di Liberatore

Gillo Dorfles

1993: a Roma, in Castel Sant’Angelo

Piuttosto che una sterile mimesi – mai raggiunta dagli artisti se non in quei “trabocchetti del reale” costituiti dal trompe l’oeil o dal leggendario grappolo d’uva di Zeusi – la ricreazione, o la creazione ex novo, d’un universo fantastico dove alla Natura si sostuisce l’artificio, dove il medium artificiale si “naturalizza”; perché – come affermava già Goethe – “auch das Unnatüralichste is Natur”: anche quanto c’è di più innaturale è natura. È questo genere di ritorno alla natura che mi sembra una delle tendenze odierne più giustificabili dopo tanta astrazione anti- figurativa e tanta oggettualità presa a prestito dal panorama degli oggetti d’uso. Ed è forse quello che più ci convince in questa grande esposizione di Bruno Liberatore in un ambiente che è al tempo stesso quello sublimemente “artificiale” di Castel Sant’Angelo, e quello, “naturale” ma umanizzato, della Roma che si stende ai suoi piedi e che finisce per costituire un tutto inscindibile con le architetture del Castello e le sculture di Liberatore. Forse l’aspirazione dell’artista a emulare con le sue opere una dimensione paesaggistica ha raggiunto la sua meta attraverso le ultime fasi molto combattute del suo operare. La volontà di trasformare alcune figure geometriche (piramidi, losanghe) in viventi organismi tellurici, era in passato spesso arginata dall’eccessivo rigorismo costruttivo; oggi invece in questa imponente mostra Liberatore appare “liberato” da quella arginatura, proprio per il fatto d’aver accettato – anzi ricercato – quella indeterminatezza formale (o meglio quella determinatezza materica) che permette alle sue sculture di trasformarsi in organismi “viventi”.

Che poi queste opere ci appaiano oggi decisamente in sintonia con l’ambiente romano, mi sembra una qualità tutt’altro che trascurabile: non è facile “tener testa” alla grandiosità – classica e romantica, romanica e barocca – dell’“Urbe”, e il fatto che questi lavori – spesso di grandi dimensioni (ma anche quando sono a livello di bozzetto) – reggano al confronto mi sembra un pregio non indifferente. Molte di queste opere risalgono a un’epoca precedente e appartengono a quelle così acutamente analizzate da Enrico Crispolti quando affermava: “questi ‘paesaggi plastici’ aspirano a creare una realtà urbana della scultura in quanto tale; in quanto paesaggio plastico che accolga in una sua percorribilità proprio come può farlo la città”. Ma, mentre nei lavori risalenti agli anni Settanta e Ottanta si poteva ancora notare un’eccessiva esasperazione geometrizzante, una forse troppo scoperta volontà di perfezionismo tecnico – in molte delle opere più recenti (Isole, Creste, Slancio vitale, Crisi di una piramide) è evidente la nuova aspirazione dell’artista a curare – oltre all’aspetto formale e plastico – anche quello “materico”. Intendo dire che in molte delle ultime sculture l’abbandono d’un rigorismo compositivo, l’utilizzazione di superfici meno levigate, più “spontanee”, fa sì che si verifichi quel fattore di “naturalizzazione” cui, sin dalle prime righe, alludevo.

Si vedano, infatti – tra i lavori che mi sembrano più maturi – le due Creste, in questo caso più prossime a una forma organica che alle consuete matrici orografiche o geologiche – e si veda anche l’inconsueta e sensuale composizione in ferro e terracotta (il bronzo può essere talvolta pericolosamente aulico!) Crisi di una piramide (1987–1988), dove l’incontro e l’incastro dei due media riesce a proporre una visione decisamente più naturalistica ma anche più ricca di sfumature cromatiche. E si veda anche l’Isola, una sorta di ovalare concrezione che nella sua dimensione prevalentemente orizzontale riesce a stabilire un effettivo contrappunto con le altre opere in prevalenza verticali. In definitiva: Liberatore si è svincolato dall’eccessiva preoccupazione geometrizzante che nei suoi più tipici “paesaggi” rischiava alle volte di coartare la sua vena fantastica – per andare alla ricerca di quello che possiamo davvero considerare come l’invenzione d’un nuovo universo autonomo e autoctono. Non solo perché il materiale (bronzo meno levigato, o addirittura gesso e cemento) è più prossimo a certe concrezioni di ambienti nostrani (penso alle Balze volterrane, alle Crete bolognesi, ai tufi pugliesi) – e non a caso forse Liberatore ha assorbito durante l’adolescenza l’influenza di certe colline abruzzesi –, ma perché – attraverso questa tecnica rinnovata e più sensuale – affiorano con maggior icasticità le costanti paesaggisticoplastiche che sono le autentiche ispiratrici di tutta la sua opera.

1999: a Dresda, nel Castello di Pillnitz

Quella volontà di proiettare verso l’alto la sua ricerca, che aveva visto molte delle opere di Liberatore ergersi come rilievi (o piramidi?), come montagne (o dolmen?) verso un orizzonte ancora da scoprire, e che in alcuni lavori come L’idea di un campanile, o Nella corrente aveva superato ogni precedente esigenza mimetica, trova ora, in alcune delle ultime opere, una sua logica evoluzione. Ma, al tempo stesso, dimostra che si è, in un certo senso, concluso un ciclo importante del suo lavoro. Infatti, chi osservi, ad esempio, Grembo, o Città terrestre e città celeste, o Eruzione si accorge subito della carica esplosiva che ha permesso all’artista di dar vita a nuove forme plastiche del tutto rinnovate rispetto alle precedenti. La materia bronzea (ma evidentemente derivata da un precorritore atto di sapiente modellazione della creta) ha acquistato una tensione nuova ancora maggiore di quella delle opere precedenti. Non solo, ma una sorta di “esplosione” materica (che, ad esempio, nel Grembo presenta quasi una naturalità “uterina”) ha fatto sì che si evidenziassero delle forze nascoste, certo più intense di quelle presenti nelle sagome piramidali e spesso decisamente rettilinee, di più antichi cicli scultorei. In altre parole: ritengo che Liberatore abbia saputo trovare, nelle opere dell’ultima fase, quell’identità tra materia e concetto che, da sempre, è alla base di ogni vera opera d’arte che voglia emulare – anche se non superare – le forze segrete della natura.

2007: a San Pietroburgo, nell’Hermitage

Alle volte la vera matrice d’un’opera d’arte può essere il vuoto: un vuoto attivo; il vuoto come materia prima della forma prima ancora della sua trasformazione in ‘pieno’. Non ho bisogno di rifarmi all’estetica Zen per sottolineare l’importanza di questa costante morfologica in tante opere d’arte nipponica; ma anche ai nostri giorni di molte opere dell’occidente. Sono partito dal concetto di vuoto per parlare d’uno scultore come Bruno Liberatore che in tutto il suo percorso è stato sempre un cultore del pieno: di una scultura metallica spesso vicina alla “pienezza” rupestre tradotta in bronzo. (Chi non ricorda tanti “paesaggi” solcati da scoscesi sentieri delle sue sculture metalliche?). Ma oggi – in una delle sue ultime stagioni – Liberatore ha aperto altre strade alla sua vena fantastica: quella appunto del vuoto: del negativo plastico che si incarna in un rinnovato corpo di argilla e che si traduce nella serie, ricchissima, delle terracotte (e si vedano alcuni interessanti esempi come Ambiente e vuoto del 2000: nelle due versioni; o Flusso nello spazio, del ’95–97). Un’altra feconda via mi sembra quella dove metallo e terracotta confluiscono (come ad esempio nell’Arco e muro del ’97); dove ferro bronzo e terracotta accrescono il contrasto tra gli stessi, insieme esaltandone la natura espressiva. Credo che queste opere, dove il metallo assume una posizione di rilievo rispetto a quelle di sola terracotta, possano costituire un’ottima base anche per un futuro evolversi dell’arte di Liberatore verso materiali diversi, sempre che siano connaturati con la consueta originalità della sua ricerca.