Bruno Liberatore a San Pietroburgo

Enrico Crispolti

Conosco Bruno Liberatore da quando era allievo e assistente di Pericle Fazzini nell’Accademia di Belle Arti di Roma,dove anche io insegnavo (sul versante della storia dell’arte), alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. E ho avuto modo di seguire passo passo l’evoluzione del suo lavoro plastico dalla fine dei Settanta a oggi, in un’evoluzione innovativamente molto coerente quanto caparbia nella sua volontà di resistenza su posizioni di ricerca del tutto personali, anzi sempre più personali. In un trentennio di lavoro di ricerca e approfondimento di un proprio patrimonio sia di riferimenti immaginativi, sia di modi plastici, si può riconoscere oggi indub- biamente la personalità di Liberatore come una delle più originali ed autonome sulla scena della scultura italiana fra seconda metà del XX e questo inizio del XXI secolo. Apprezzo questa sua originalità di presenza, per molteplici ragioni. La prima, che direi una ragione di fondo, è la coerentissima capacità evolutiva espressa, nel suo lavoro trentennale, attraverso una sostanziale rinnovata fiducia nei valori di una tradizione propria della scultura, vale a dire la consistenza dell’evento plastico, la sua articolazione, la sua ponderalità materica. Valori tuttavia intesi in senso non tradizionalistico ma in modo profondamente innovativo attraverso una costante dialettica di proposte, in senso strutturale quanto in senso materico. Fino ad un traguardo, come quello che contrassegna grosso modo il lavoro sviluppato da Liberatore negli ultimi dieci anni, di una messa a rischio, a revisione profonda, dunque di una fortissima sollecitazione di problematicità, rispetto al tramando di quei valori.

Il lavoro plastico di Liberatore si innesta cioè su una tradizione di profonda consapevolezza dei mezzi tipici della scultura, e tuttavia tale consapevolezza si realizza soltanto in un continuo rischio innovativo che investe i modi dell’invenzione plastica, sia in senso strutturale, nel lib rarsi nello spazio, sia in senso materiologico, nella scelta provocatoriamente disparata delle materie plastiche, fra ferro, bronzo, terracotta utilizzati in un medesimo contesto (come nelle sculture più recenti), sia in senso strettamente del trattamento accentuatamente materico nella caratterizzazione specifica delle superfici (nella lavorazione corsiva a microtasselli della terracotta, in particolare). E ne viene una varietà di soluzioni plastiche di volta in volta del tutto imprevista, imprevedibile, liberissima, mirata a costruire delle possibilità molteplici di evocazione di un proprio mondo immaginativo autoctono. Questa è la seconda ragione del mio apprezzamento per il profilo d’originalità che la scultura di Liberatore si è conquistato sulla scena della scultura italiana attuale. Conquistato in modo silenzioso, lavorando caparbiamente al chiarimento di una propria matrice immaginativa. Quella capacità di corrispondere a una tradizione autentica di scultura, al tempo stesso ponendola continuamente in crisi, a rischio innovativo, non risponde ad una volontà qualunque di sperimentazione ma alla necessità di approssimarsi sempre più, di dare voce a un nucleo immaginativo connesso a un proprio imprinting tellurico, montano, appenninico (nato Bruno liberatore nell’antica cittadina di Penne, alle falde del più alto massiccio degli Appennini, la catena montuosa che corre lungo la penisola italiana). Vale a dire che le trasgressioni plastiche, con quasi inesauribile inventività di soluzioni, sia strutturali, sia materiologiche, sia materiche, operate da Liberatore nel suo lavoro particolarmente recente, sono tutte motivate e in funzione di una ricerca d’adesione sempre più intima, convincente e inventiva, a quel patrimonio di riferimento ancestrale, territorialmente ben definito.

La terza ragione d’apprezzamento d’originalità è nel senso altrettanto del tutto proprio, persino si direbbe autarchico, appunto sia di coniugare in modo anomalo e sorprendente le possibili materie della scultura, fra bronzo, ferro, terracotta, sia di costruire plasticamente, brano a brano, manualmente, corsivamente, la consistenza materica delle superfici caratterizzanti masse, protuberanze, escrescenze, attraverso soprattutto l’esercizio della terracotta, che nel suo lavoro recente si è fatto molto più intenso e quasi totalizzante. Così che si può ben dire che attualmente la costruzione plastica di Liberatore si sviluppi in una totale corsività e imprevedibilità sia strutturale, sia di trattamento materico, appunto fra concavità cavernose e protrusioni quasi organiche. Complessivamente l’originalità che contraddistingue il profilo della personalità di Liberatore scultore mi sembra paragonabile, storicamente, in Italia, forse soltanto a quella di un grande scultore protagonista dell’Informale quale è stato Edgardo Mannucci, materico in saldature dirette di frammenti metallici (anche scoli rappresi di fusioni), capace di ordire dall’inizio degli anni Cinquanta grafie strutturali spaziali; marchigiano, ma operante a Roma, vicino all’umbro Burri, il “pittore” materico che impiegava sacchi, tele, concrezioni materiche intrise di vinavil, altro protagonista dell’Informale europeo.

Analogo a quello di Mannucci è in Liberatore (abruzzese, cioè anch’egli centroitaliano) l’istinto a ricercare liberissimamente, piegando ogni portato di dialogo con ricerche d’avanguardia alle ragioni di rispondenza espressiva a un proprio patrimonio di radici poetiche, dunque inventando soluzioni plastiche, spaziali, strutturali e materiche del tutto in proprio. Analoga la funzionalità dell’invenzione plastica realizzata del tutto in proprio, secondo un istinto comunicativo ed evocativo assai pronunciato, mirando intensamente all’esplorazione immaginativa e partecipazione di un proprio universo di riferimento. Che nel caso di Mannucci era la percezione dell’energia intrinseca alla materia, in una ormai acquisita consapevolezza della fissione atomica, energia attuata in una proiezione di riscontro cosmico (dal microcosmo al macrocosmo, dunque). E nel caso di Liberatore è il riferimento, sconfinato, all’imprinting infantile di un universo montano, appennico, che diventa una totalità di mondo. Paesaggi fantastici entro i quali addentrarsi, riuscire, forme aperte, spezzate, offerte quali frammenti, brandelli memoriali di una naturalità primaria, ancestrale, rivissuti in chiave psicologica. Forme liberissime, imprevedibili, invitanti tattilmente, misteriose, profili e creste di monti, viscere e corpi della montagna, della terra. Una percorribilità sconfinata alla quale Liberatore invita come in una estrema possibilità di riferimento a una natura madre, generatrice, principio e orizzonte. E nelle sculture ambientali di grandi dimensioni l’insieme plastico infatti si apre in possibilità di percorrenze rivelatrici, quasi di percorsi iniziatici.

La ricerca plastica sviluppata da Liberatore si è ormai caratterizzata nel tempo in diverse sue stagioni, sufficientemente differenziate. Dapprima, nel suo lavoro, la nettezza strutturale costruiva presenze plastiche la cui politezza di superfici concorreva alla definizione di evidenze di richiamo memoriale archetipo. Quindi, lungo gli anni Settanta, l’impianto strutturale delle sue sculture si modulava nella proposizione di soluzioni plastiche come allusive a “facciate”, “porte”, “muri”, di remota eco antropomorfa archetipa, ove l’implicita sollecitazione dinamica si manifestava in un invito quasi alla penetrazione, alla transitabilità. Successivamente le ragioni espressive della materia plastica (che era allora sempre il bronzo) hanno cominciato a minare il predominio della struttura plastica, fino ad impossessarsene in nuove motivazioni immaginative. Lungo gli anni Ottanta l’impianto strutturale delle sue sculture si è venuto articolando non più verticalmente ma soprattutto orizzontalmente nel progetto di situazioni non più strutturalmente unitarie ma disposte in più episodi, prefigurando insiemi plastici, virtualmente di configurazione ambientale percorribile, vere e proprie situazioni ambientali (progetti da realizzare ad altra scala, come in alcuni casi è del resto accaduto, fra anni Ottanta e Novanta). Liberatore immaginava la percorribilità di un suo paesaggio, misteriosamente addentrandovisi, un paesaggio interamente plastico, geometricamente metafisico, avveniristicamente “altro” (eppure d’archetipa remota configurazione).

E il paesaggio è diventato da allora infatti il suo nuovo “topos” immaginativo. Da una parte, corrispondendo dunque ad un imprinting d’infanzia e d’adolescenza alle falde appunto del Gran Sasso d’Italia. Dall’altra, insinuandosi una proiezione in paesaggi avveniristici, quasi addentrandosi in luoghi di nuovi mondi, misteriosamente di forte squadratura geometrica elementare, meccanica. Ma dalla fine degli anni Ottanta e lungo i Novanta la ricerca plastica di Liberatore si è fatta più complessa. Per un aspetto operativo infatti realizza a scala definitiva, in ferro, in profilature piramidali di forte inserimento ambientale, e del tutto ambientali essi stessi nella loro interna percorribilità, i suoi “paesaggi”. Mentre per un altro aspetto operativo lavora invece su grandi bronzi sensibili, nella loro conformazione altrettanto che nel loro tessuto plastico, a una sorta di incomprimibile insorgenza germinativa della materia, quale forza tellurica decisamente espansiva. E sono sempre remote suggestioni memoriali di paesaggio montano. Ma ecco che Liberatore comincia allora a ricorrere anche alla terracotta, in un rapporto dialettico con il ferro, con il bronzo.

L’esperienza d’accentuazione dell’espressività materica delle sculture, configurate sempre più liberamente secondo suggestioni di pulsioni telluriche, è all’origine dell’ulteriore esperienza di librazione spaziale imprevedibile, quasi organica, che caratterizza la scultura di Liberatore fra i secondi anni Novanta e questo primo decennio del Duemila. Quando tuttavia, anche attraverso l’insistito uso corsivo, manuale, materico della terracotta, lo scultore è in grado di muoversi in una ormai veramente totale libertà sia d’invenzioni strutturali, sia di accentuazioni d’espressività materica. Spingendo quel riferimento tellurico archetipo quasi alla dimensione di episodi d’un proprio immaginario cosmogonico. Ed è il traguardo nuovo, il più recente, dell’originalissimo percorso di uno scultore che vive intensamente una propria autonoma avventura ma che proprio attraverso la sua “solitudine” riesce ad affermare qualcosa di profondamente nuovo ed autentico, rispondente all’aspetto più segreto e territorialmente, ancestralmente, radicato dell’arte italiana contemporanea.