Scultura e natura
Furio Colombo
C’è la natura e c’è l’artificio. C’è il paesaggio e c’è il manufatto. Ci sono la montagna e la fabbrica, il mare e la diga, il sentiero segnato di briciole di Pollicino e l’autostrada. E gli animali più schivi e misteriosi della foresta saltano sugli spazi accettati delle facciate di cattedrale e diventano pietra, atteggiandosi a simboli, incubi, mostri, chimere. Tutto il percorso dell’arte – nel suo impennarsi e cadere, nel suo scoprire, inventare, ripetere, correre avanti, tornare indietro, azzardare e pentirsi, sfidare un Dio irriproducibile e onnipotente o tentando di accattivarselo, è un continuo alternarsi di spinte e di soste più vicino o più lontano dalla natura.
In questo spazio – meglio – al centro di questo spazio, sta il lungo e splendido lavoro di Bruno Liberatore. Il suo percorso, che prende una forma indimenticabile e potente da subito, dai primi gesti del suo lavoro, evoca – mentre lo guardi – il prodigio musicale di Luciano Berio. In che senso? Perché, come in Berio, invece di esibire la brutalità barbara del nuovo che si insedia nello spazio consumato di ciò che veniva prima, nasce da un raffinato percorso di competenza, frequentazione, esperienza culturale del prima, si regge su una consapevolezza dell’arte già nata, su una coscienza estetica e – allo stesso tempo – istintiva e ragionata, sul gusto, che spesso è un limite e nel suo caso è un punto importante di orientamento.
Giustamente Liberatore ha insegnato e insegna. Il suo percorso di lavoro è una scuola, affollata di presenze culturali e di citazioni. Eppure il suo lavoro – come mostra con chiarezza questa grandiosa area di sosta in un impegno tutt’altro che concluso – è misteriosamente e completamente unico e nuovo, diverso e destinato a cambiare l’arte della scultura. Proverò a indicare alcune ragioni.
Ho citato Berio. Berio aveva notato sia il capolavoro non compiuto dei grandi venuti prima di lui (indimenticabile il «restauro» di brani dispersi e abbandonati di Schubert). E aveva notato il senso e il valore e il peso del silenzio, nello spazio in cui si genera sia il rumore che il suono. Liberatore sa che tutta la grandiosità e maestà dell’arte (della scultura) che lo ha preceduto è solo una parte del percorso e che – come in natura – nessuna grandezza fa ombra o impedisce un’altra presenza o grandezza. Questo artista vede e usa con chiarezza la lezione della natura e della vita. Ogni vita dipende – anzi, discende – dalle vite che vengono prima. Ma anche: ogni vita – e ogni atto di vita – è totalmente nuovo, è qualcosa che prima non c’era; è, persino – quando è vita moderna – è un colpo di gong che avvisa: l’opera creativa – che è l’esistenza dell’uomo – non è finita. Un lungo viaggio dall’arte, che prima ha fatto il ritratto alla natura, poi all’occhio umano e alla percezione, in tutti i suoi aspetti tecnici, fisici, estetici. E in seguito ha aperto un laboratorio il più possibile indipendente dalla natura – o, meglio, dalla composizione della natura – creando il manufatto artistico come gesto e dichiarazione di indipendenza dal creato.
In che senso la scultura di Liberatore è nuova e diversa? Lo è perché questo artista occupa uno spazio vuoto fra natura e invenzione, fra la bellezza e grandezza e minaccia e misteriosità della natura e la pura invenzione. Liberatore, con uno di quei gesti non facilmente spiegabili che sono propri di alcuni artisti, compie la strana impresa di far passare vita e natura (il senso di grandiosità, di grazia, di mistero) nel suo materiale, nelle sue forme che – diventando scul- tura e dunque opera d’arte – respirano e traspirano vita e non sono più manufatto. Qui il con- fine fra natura e artificio finisce. Qui l’arte è – insieme – natura e opera di un uomo, con un travaso di misteriosità che rende stranamente omogeneo il territorio arte-natura identificato e occupato da Bruno Liberatore.
Tutto ciò avviene senza alcun percorso che chiamerei «esterno» (le forme dell’arte che assomigliano alla natura) e senza cercare l’alibi dell’affinità formale con ciò che già esiste. Di qui la meraviglia. Ti aggiri fra le sculture del tutto uniche, originali, indipendenti dalle forme create, di Liberatore e ti senti dentro un paesaggio che conoscevi, qualcosa di familiare e di caldo e di vivo, come accade aggirandosi fra animali e fra alberi. Persino la superficie di queste opere è come una pelle, che ispira uno strano senso di affettuosità e di continuazione della vita. Per questo non senti il peso o la dimensione o l’ingombro di queste opere d’arte che occupano un paesaggio e formano un paesaggio. Senti – guardando e toccando – il battito e il respiro della vita. Lo so che è suggestione. Ma questo accade solo quando l’arte è arte. E’ un punto di arrivo che dà un senso di euforia e uno strano senso di affetto e di vicinanza desiderata, mentre sei accanto a opere fisicamente molto grandi e cariche di energia. Ma senti che è un’energia grande e benevola. Accade di rado. Si chiama capolavoro